LMD - Appunti

Cosa ci ha fatto veramente Arthur Fleck

Il film Joker: folie à deux è un capolavoro. Per qualche motivo, però, sta facendo incazzare tutti: sale semi-vuote, incassi deludenti, recensioni e commenti per lo più negativi.

I fan sono infuriati. Alcuni volevano un film drammatico e non un musical. Altri dicono che è noioso, senza ritmo, inconsistente, poco innovativo rispetto al primo capitolo, che vive di citazioni e ripetizioni. Ma questi commenti dicono molto più su chi li fa, che sul film in sé.

Forse il motivo di fondo della delusione è un altro.

Partiamo dal capitolo precedente.

Il primo Joker è un film sulla lotta di riconoscimento. E' la storia di un oppresso la cui quotidianità è fatta di soprusi e umiliazioni, che indaga sulle sue origini e che, in fondo, non chiede altro che di essere amato. Ma il riconoscimento che vuole ottenere Arthur è a doppio binario. Infatti il film è anche la storia di un megalomane che si è messo in testa di voler fare il comico, senza però saper fare ridere. Arthur è il prodotto di una società che vuole tutti brillanti, tutti artisti, tutti creativi... un'idealizzazione di sé che rende incapaci di accettare la propria mediocrità, il fatto di non avere nessun talento, di non essere nulla di che. Arthur è il malriuscito nietzscheano che non accetta il proprio posto nel mondo, è l'uomo del sottosuolo che pretende di ottenere un rispetto che per forza di cose non potrà mai arrivare. E invece, nel suo caso, paradossalmente alla fine il rispetto arriva.

Nel secondo capitolo, la vicenda interiore di Arthur ricorda più la storia di Raskol'nikov, il protagonista di Delitto e Castigo. Al processo vengono chiamati a testimoniare alcuni personaggi secondari del primo film. Per la prima volta Arthur vede le cose anche dal loro punto di vista. Comincia a rendersi conto che anche le sue azioni hanno delle implicazioni, che il mondo non si divide in vittime ed oppressori, che anche lui ha la sua fetta di responsabilità, che è troppo comoda dare sempre e solo la colpa agli altri. Sente la coscienza che lo riporta al di qua del bene e del male. Alla fine rinnega Joker, deludendo i sostenitori.

Quello che rende veramente geniale il film è il fatto di essere una meta-narrazione non solo del primo capitolo, ma anche del secondo! In qualche modo il film riesce ad anticipare la reazione che gli spettatori avranno guardando il film stesso.

Quando, sulla scalinata, Lee/Harley respinge Arthur, lo fa dicendogli una cosa spiazzante: ci era rimasta solo la fantasia, e tu ci hai tolto anche quella.... Ma chi è quel noi sotteso dalla frase? Chi sono quelle persone che escono deluse dall'aula di tribunale quando Arthur rinnega Joker? Quelle persone sono i fan che escono delusi dal cinema dopo aver visto il film. Erano inconsapevolmente andate lì per vedere un simbolo. Ma non tanto il simbolo della propria oppressione, quanto quello della propria auto-narrazione vittimizzante. Infatti Arthur non incarnava solo gli incel che lo avevano eretto a simbolo della loro sofferenza, ma anche tutte le femministe del sottosuolo, e in realtà chiunque, animato da risentimento e volontà di potenza, finisca per abbracciare in modo acritico una qualche ideologia polarizzante, che agisce come castello di razionalizzazioni, protegge il proprio narcisismo e dice: “il mondo si divide in buoni e cattivi: i colpevoli, quelli contro cui puntare il dito, sono gli altri! Tu, poverino, sei il buono, la vittimina, l'oppresso! Devi solo lamentarti!”

Il primo film svelava tutta una serie di menzogne che hanno sempre permeato l'immaginario classico di Batman, un immaginario sostanzialmente borghese in cui un miliardario buono si traveste per combattere folli criminali, mostrandoci la storia da un altro punto di vista e riconoscendo finalmente la natura sociale del disagio psichico. Ora, più o meno nella stessa misura, Joker: folie à deux compie un'operazione di meta-smascheramento mostrandoci che anche il primo film conteneva a sua volta tutta una serie di menzogne. La scena finale del primo film, in cui Joker spara in faccia a Murray, è entrata di prepotenza nella storia del cinema. A riguardarla ora fa tutto un altro effetto. Quel discorso iconico si palesa adesso in tutta la sua superficialità. Quando Murray chiede a Joker “come mai tanta autocommiserazione?”, non sta forse anticipando la riflessione dello stesso Arthur/Joker nel secondo capitolo? Che due domande se le siano fatte anche gli sceneggatori?

E' sempre colpa degli altri, noi siamo sempre perfetti e inattaccabili. Ma crescere vuol dire anche smettere di raccontarsi delle favole e prendersi le proprie responsabilità. Alla fine Arthur lo fa. Capisce che non può essere quel simbolo che tutti vedono in lui, e in lui avviene una maturazione: non è più la stessa persona che era alla fine del primo film.

Ora manca solo che a maturare sia il pubblico.

Timeline asignificanti

Non è poi tanto sbagliato paragonare le istanze Mastodon a delle discariche. In realtà il discorso vale per buona parte delle piattaforme federate.

Su Mastodon gli utenti pubblicano i toot. I toot sono messaggi multimediali senza titolo o categorizzazione. Il contenuto viene fruito prima di stabilire se interessa o meno. Le timeline delle istanze non sono suddivise per argomento, ma per utenza (seguita, locale, federata). In linea di massima si può pubblicare qualsiasi cosa sia conforme al regolamento di istanza.

Solitamente i regolamenti vietano lo spam. Il problema è che lo spam è solo un sottoinsieme del segno cosiddetto asignificante. Il segno asignificante è quel segno che cattura l'attenzione senza restituire nulla in cambio. I social (e i media in generale) hanno causato una proliferazione di questo tipo di segno, ma non lo hanno creato. Il segno asignificante appare ovunque il silenzio venga concepito esclusivamente come uno spazio da riempire. Appare ovunque le persone siano spinte a comunicare per via di motivi strutturali, anche se in quel momento non hanno nulla da dirsi. Esempio: nei talk-show è vietato stare zitti. Bisogna intrattenere/catturare lo spettatore altrimenti questo cambia canale, calano gli ascolti e non si riescono più a vendere gli spazi pubblicitari. Allora si inscenano polemiche costruite intorno al nulla, litigi, ecc... Viene prodotto segno, ma non c'è significato.

Questa pessima organizzazione fa sì che le timeline siano popolate da un flusso di segno schizofrenico che cattura incessantemente l'attenzione dell'utente. Questa cattura continua tende a provocare una sensazione di spossatezza e di intorpidimento mentale. Insomma: ci si rincoglionisce. Il regolamento di istanza impedisce di dire alcune cose, ma non obbliga a parlare solo di certe cose. Non c'è un argomento di cui parlare e ognuno parla di quello che vuole. Cronaca continua del banale, del quotidiano, spettacolarizzazione delle cose più futili e insignificanti. Risultato: inquinamento della semiosfera. Sfruttamento senza sfruttamento. L'abuso della funzione boost non fa che rendere il tutto ancora più frenetico.

L'evoluzione del web non implica necessariamente un progresso dal punto di vista della gestione dei contenuti. Sui forum il segno asignificante praticamente non esisteva o era relegato ad uno spazio limitrofo. Un forum è un punto di incontro. Sui forum si parla di un tema specifico. Il forum è diviso in sottosezioni. I topic di ogni sezione hanno un titolo. Prima si legge il titolo, poi eventualmente si apre il topic. Se qualcuno divaga o comincia a scrivere cose a caso, viene ripreso o bannato dal moderatore. Questa suddivisione dei contenuti è molto più intelligente rispetto a quella di qualsiasi social. Oggi solo Reddit e Lemmy ci si avvicinano, ma la disposizione annidata dei commenti rende ostiche le discussioni articolate.

Sui forum e sulle chat lo spazio personale dell'utente è limitato o inesistente. Sono spazi comunitari. Il blog invece è uno strumento dove lo spazio personale è esteso, mentre lo spazio comunitario è limitato o comunque subordinato alla dimensione individuale (si commentano sempre i post dell'autore). Myspace riprende dal blog l'idea di uno spazio personale e la inserisce all'interno di una rete di spazi uniformati. Ma per rimanere aggiornati sui contenuti di utente non basta aggiungerlo come amico: bisogna ancora aprire la sua pagina. Mancano le timeline, che arriveranno con Facebook e Twitter.

La timeline è l'innovazione che ha dato il via alla proliferazione di segno asignificante sul web. Un flusso di pensieri non categorizzati, se non in modo approssimativo grazie a tag opzionali. Mastodon, che nasce come clone di Twitter, si limita solo a decentralizzare, ma non migliora in nessun modo la gestione dei contenuti. E' un immondezzaio digitale dove chiunque si sente legittimato by-design a buttare il proprio sacchettino, perché quello è il suo spazio personale, che sovrasta la dimensione comunitaria dell'istanza. Si seguono persone e non discorsi.

A differenza del post di apertura di un topic su un forum, un toot non viene pubblicato necessariamente per dare il via ad una conversazione. E' un'operazione egoriferita ed autocelebrativa. Si simula un dialogo interiore, un parlare da soli ad alta voce sapendo di essere osservati da un ipotetico altro, che potrebbe mostrare approvazione con like o boost. E' un solipsismo a due o più persone.

Finché non ci si libererà da questa impostazione solipsistica non esisteranno mai social alternativi, ma solo dei cloni che riproducono in modo un po' meno tossico le stesse dinamiche delle piattaforme mainstream. Più che a social alternativi bisognerebbe pensare ad alternative ai social.

Evoluzione del sottoproletariato

La differenza principale tra il sottoproletariato descritto da Pasolini e la figura del delinquente glorificata oggi dalla musica Trap è questa: i personaggi delle opere pasoliniane non ostentano status symbol, non ambiscono al successo o a nessuna scalata sociale secondo i valori borghesi. I trapper, invece, nei loro testi glorificano i soldi, le macchine, i vestiti firmati, le donne intese come trofeo da ostentare, ecc... Mentre il sottoproletario del tempo rappresentava un'alterità rispetto al costume borghese, la figura del criminale glorificata oggi dai media (social network e piattaforme di streaming) è perfettamente integrata e funzionale ad incanalare e trasmettere i valori della competizione capitalista.

Vedi anche: uso di droghe come status che simboleggia l'integrazione, separato da condizione di marginalità e oppressione.

Esempio: confronto tra il personaggio di Accattone e il trapper PaPa Spa. Vengono entrambi dalle borgate romane. Vivono (o hanno vissuto) più o meno degli stessi espedienti. In Accattone c'è il rigetto del lavoro, della fatica, c'è rassegnazione e disillusione, ma anche spontaneità e vitalità. Il social-criminale moderno invece usa la retorica della spontaneità per costruire il suo personaggio e monetizzare attraverso le visualizzazioni. Ostenta, esibisce, spettacolarizza... mira all'integrazione e al successo.

Il delinquente di successo come figura speculare alla comparsa del mercato dell'anti-capitalismo. Il sistema che ingloba le critiche, le rimastica e le risputa in forma funzionale alla propria riproduzione. Sono molto più odiati i poliziotti rispetto ai delinquenti.

Ma nella misura in cui la macchina mediatica glorifica il delinquente, si può dire che tenda a renderla più tollerabile e a normalizzarla. Forse l'assorbimento dei valori funziona in entrambi i sensi: come il delinquente diventa competitivo e integrativo, anche le cosiddette persone per bene introiettano i valori della vita di strada. Ragazzini che vengono da famiglie benestanti si atteggiano a delinquenti per ottenere il rispetto degli altri, per fare bella figura all'interno della loro cerchia. Esempio: Fabrizio Corona viene da una famiglia benestante, ma l'immagine che ha sempre venduto di sé è quella del ragazzaccio, del delinquente, del ribelle. Niente di più lontano dalle idee che un borghese potrebbe avere in merito a educazione e rispettabilità! E la vende perché sa benissimo che funziona! Oggi vende il bad boy. “Sei un bravo ragazzo”è un eufemismo per dire “sei un coglione”.

Il CEO moderno si veste in modo informale (può avere anche tatuaggi o piercing), può abbracciare valori progressisti (inclusività, ambientalismo), deve dare l'idea di essere giovane e dinamico, a volte rigetta i valori borghesi tradizionali (famiglia, monogamia, castità...), non è più beneducato, dice parolacce. E' sparito il gentleman borghese!

Il precario moderno spesso non ha ne figli ne famiglia, quindi la definizione di proletario (cioè: colui che non dispone altro che della propria prole) comincia ad andare stretta... la sinistra ormai da decenni non ha più un progetto di trasformazione sociale, non c'è coscienza di classe perché vengono meno il concetto e il senso stesso di classe... è tutto più sfumato e frammentato.

E' in generale ancora vero che qualcuno vive sfruttando il lavoro di qualcun altro, ma la suddivisione borghese-proletario-sottoproletario risulta sempre più obsoleta e insufficiente per descrivere le dinamiche del capitalismo contemporaneo.

Vulcanalità

In un frammento precedente si parlava di godimento anarchico liberato dalla prigione dell'immagine e del plug anale come strumento per trasformare il corpo in una carta di intensità.

Ora c'è da fare una precisazione: se il plug è prefabbricato, in realtà il godimento non è poi proprio così anarchico. La forma del godimento è ancora (in buona parte) organizzata a priori, in fase di progettazione.

Chi progetta i plug anali è il Dio Vulcano. Forgia le armi per l'esercito del Piacere Anale. Organizza il godimento partendo da una massa-informe-corpo-senza-organi in plastica / vetro / PVC / resina / ecc... Si gode sempre secondo i dettami di Vulcano. Vulcano può essere un artigiano o un'azienda. Può forgiare a mano o per via di un processo industriale.

Nel momento in cui persiste una divisione sociale tra lavoro e godimento, cioè nel momento in cui Vulcano non è l'utilizzatore finale del plug, lo scopo della progettazione rimane generico e approssimativo. A volte i plug prefabbricati (specialmente quelli giganti) sono plug scenici. Non sono progettati in funzione del godimento, ma in funzione dello spettacolo. Facciamo l'esempio di un canale PornHub su cui vengono caricati video anal. In quel contesto l'inserimento del plug (assieme alla scomodità delle posizioni assunte da chi lo indossa) è funzionale alla telecamera e allo sguardo dello spettatore. Un plug a forma di tentacolo gigante funziona visivamente molto meglio di un plug più piccolo e modesto, ma magari più comodo e piacevole (perché riempie meglio l'interno nei punti giusti). Lì non si gode tanto per l'inserimento del plug in sé, ma per il fatto di venire guardati/riconosciuti/desiderati dallo spettatore che lascia commenti, like e fa incrementare il contatore delle visualizzazioni. Il godimento macchinico (cioè l'intensità generata dall'interruzione di flusso della macchina-ano) è subordinato alla lotta di riconoscimento.

(Re: Zizek => un content creator che legge Lacan)

In realtà si trovano a buon mercato ottimi plug fatti in materiale soffice al tatto ma rigido nel modo giusto. Le palline anali collegate sono molto versatili. I plug tentacolari, tolta la funzione scenica, sono utili a creare lo spazio interno in vista dell'inserimento di altri plug (o altre palline). Ma il limite insormontabile di ogni prefabbricato si configura nel non essere stato progettato appositamente per le esigenze e le fattezze di una persona reale. Divenire Vulcano significa quindi andare oltre la divisione del lavoro anale e forgiarsi il plug a seconda delle proprie necessità.

La gara a chi fa entrare il plug più grosso (anche quando si gareggia da solə, contro sé stessə) è, sotto mentite spoglie, l'ennesima riproposizione della solita inutile gara a chi ha il cazzo più lungo. Non contano solo le dimensioni, ma anche il modo in cui si crea e si riempie lo spazio interno. Per esempio: usando un set di frutta tondeggiante (appositamente pulita e lavorata nelle zone spigolose per evitare tagli interni) con un diametro variabile (dai 6 agli 8 centimetri) è possibile inserire tanti piccoli plug ricombinabili, spingerli dentro in modo che vadano a premere contro i punti giusti, dando una sensazione di riempimento che difficilmente il singolo plug può eguagliare. Inserire prima una pera e sfruttare la punta stretta per andare in avanscoperta creando spazio. Combinarla con una mela per lasciare l'ano semi-aperto e bruciante. Si dirà: ma è pericoloso perché la frutta non ha la base piatta che previene il risucchio. In realtà è difficile che una volta inserito il plug-frutto vada molto lontano, perché dopo circa 15-16 centimetri c'è un secondo gruppo di muscoli che blocca il risucchio. Basta infilare le dita dentro, spingere e farlo uscire.

Insomma: si tratta di provare e sperimentare. Con le stampanti 3D poi si schiude veramente un universo di virtualità...

Estremità musicali

Ciò che distingue la musica dal rumore è la presenza di una qualche forma di organizzazione sonora. Anche il pezzo noise più estremo, per essere ascoltabile, deve mantenerne una.

Il rumore di un trapano è materia sonora non organizzata. Perché dà così fastidio? Manca anzitutto una filtrazione del range di frequenze (attenuare o rimuovere quelle fastidiose per l'orecchio umano). Poi mancano elementi di ripetizione. Ogni trapanata è differenza: non si riesce a prevedere quando finirà quella corrente e quando inizierà la prossima (o se la prossima sarà l'ultima). Ma ecco che campionando una singola trapanata, mettendola a tempo e ripetendola (per esempio sui quarti), il rumore organizzato diventa musica.

Espressione Contenuto
Materia combinazioni sonore possibili rumore
Forma regole e convenzioni compositive filtrazione e ripetizione
Sostanza composizione musica

Forse fare musica estrema vuol dire oscillare sull'estremità dell'organizzazione musicale, far balbettare il linguaggio musicale situandosi sul bordo tra musica e rumore, far avvertire/intuire all'ascoltatore il corpo senza organi sonoro senza fare effettivamente rumore, cioè preservando elementi di ripetizione (ritmo).

Un esempio: https://proem.bandcamp.com/album/vault-ep-1-4-noise

Tosature caosmiche

Ogni volta che il custode del parco tosa l'erba lo fa in modo diverso, creando nuovi sentieri tra i campi, nuove aperture, nuove linee di fuga. Così facendo crea nuovi modi di abitare e vivere il territorio.

Ad ogni tosatura si schiude un universo incorporeo di possibilità. Per ogni parco ci sono virtualmente infiniti parchi, ma per via dei limiti fisici (forza, tempo e risorse) solo un numero finito è trasportabile sul piano territoriale.

L'attività di tosatura come fuoco di creazione autopoietica, come vettore di deterritorializzazione. Il tosaerba come macchina-tecnica, come snodo di compenetrazione tra piani di immanenza che spalma sul territorio esistenziale uno tra gli infiniti possibili parchi virtuali.

L'attività di tosatura come allegoria scelta tra un'infinità di possibili, per andare oltre il concetto di arte come stratificazione, come serie circoscritta di attività (le arti) in mano ad un gruppo elitario di persone (artisti), delimitata da uno spazio (museo, ma anche concerto, teatro...) e da un luogo di sapere (accademia). La provocazione iniziata con i ready-made non ha mai scalfito realmente l'istituzione museale, ma si è limitata a creare nuove fasce di consumatori, che pagano il biglietto per vedere cose diverse dai quadri, lasciando intatta l'illusione di uno spazio sociale creativo ben definito. Ma anche quando l'opera è esposta fuori dal museo, in una piazza o in centro rimane una circoscrizione territoriale, di un inizio ed una fine spaziale. L'opera inizia qui, finisce lì.

Cos'è arte e cosa no? Chi è veramente artista e chi no? Sono domande da abbattere, perchè qualsiasi risposta ha il solo scopo di creare una morale, una gerarchia fittizia atta a nobilitare una serie di persone o attività a scapito di altre.

Ma perché il giardiniere, il barbiere, il falegname o il cuoco dovrebbero avere una marcia in meno rispetto al musicista, al designer o all'artista visivo, nel momento in cui ogni attività creatrice implica la schiusura di un universo incorporeo di possibili, di infinite deterritorializzazioni, la creazione di nuovi mondi e la ridefinizione di uno o più territori esistenziali?

Ci sono forze creatrici ovunque, oltre l'arte, dentro e fuori di noi.

De-soggetti-wanna-zione

Negli anni '70, in risposta al monolite-monopolio della televisione di Stato, si forma un reticolo di TV libere. Un tecno-rizoma pre-internettiano. Alla lunga si presenta un problema: servono i soldi. La TV passa da libera a privata/commerciale nel momento in cui questo reticolo televisivo viene assorbito dal Capitale. È il momento in cui salta fuori la figura del soggetto-televenditore. Ma il televenditore è nulla senza telecamere (e senza i soldi per comprare lo spazio televisivo).

La storia di Wanna che col suo carisma sfonda lo schermo è la riproposizione della favola liberale del self-made man. C'è tutto un gruppo che lavora dietro al personaggio. Lo racconta bene il primo marito di Wanna nel libro di Zurlo. Il carisma è costruito dietro ai riflettori. Un po' prendono da Anna Magnani. Forse un po' anche da Mussolini.

Dove si potrebbe fermare un'analisi incentrata sulle categorie del DSM-V? L'istrionico è agente del falso. Vive nella menzogna. È teatrale: esagera, drammatizza, manipola. Rimarca continuamente (prima a se stesso, poi agli altri) di essere una persona vera. È lui stesso il primo a non crederci. Proietta la falsità sugli altri. Ma l'istrionico è un'astrazione senza volto, senza corpo, senza storia e senza posizione sociale. Manca un contesto. Non basta neanche dire che viene da una famiglia povera, che cerca la rivalsa. Così si rimane all'interno della rappresentazione che Wanna da di sé per legittimarsi e creare empatia con lo spettatore.

Wanna non è poi così amorale come la descrivono i giudici. Ci sono cose che non farebbe mai. Perché i coglioni vanno inculati è il suo imperativo: si deve fare. Ma non basta appellarsi alla moralità del singolo: laddove la macchina del gioco d'azzardo si innesta sulla macchina mediatico-imprenditoriale appare la figura del tele-manipolatore. In realtà manca ancora qualcosa: cosa crea quello stato di solitudine, di debolezza, che nelle inchieste viene preso come una costante, un dato di fatto, che porta a cercare empatia/riconoscimento, ad alienarsi nel simulacro (sì, perché Wanna non è Vanna, non ha referente reale) della figura carismatica?

In tutte le trasmissioni in cui vengono intervistate Wanna e la figlia viene inscenato un processo mediatico: il prete-giudice-intervistatore tenta di fare leva sui loro sensi di colpa, fallendo inesorabilmente. Le stesse trasmissioni pagano a Wanna e figlia un cachet, in cambio di ascolti e vendita degli spazi pubblicitari. Nel caso dello streaming aumentano le visualizzazioni e gli iscritti al canale. Se Wanna non esiste senza telecamere, perché le si continua a concedere spazio? La lezione latente è: il crimine paga. È la macchina mediatica ad essere immorale alimentandosi grazie alla glorificazione della figura dell'imbroglione.

Le probabilità di un 6 al Superenalotto sono circa 1 su 622 milioni. Ogni anno lo Stato incassa circa 10 miliardi (su 20 spesi) con le scommesse. Come sarebbe mai potuta apparire la figura del maestro di vita che regala i numeri fortunati senza la truffa legalizzata della lotteria di Stato? Lo stesso Stato che condanna Wanna e il Maestro in tribunale...

La genialata è occultare tutto questo dietro alla figura della geniale imbrogliona che si approfitta delle debolezze altrui. La menzogna più grossa che viene rimarcata dalla serie Netflix, dai libri e dalle interviste è questa: una separazione marcata tra giudice e colpevole, tra TV buona e TV cattiva. Da una parte il Bene, dall'altra il Male. Un soggetto contro cui puntare il dito. La stortura di un sistema che funzionerebbe bene, non fosse per qualche imbroglione senza scrupoli che si approfitta delle debolezze altrui.

Invece di un processo ripreso dalle telecamere ci sarebbe (stato) bisogno di mettere le telecamere sotto processo. Assieme a tutta la società.

Meta-organizzazione del dibattito

Tutte le macchine mediatiche organizzano dibattiti, meta-dibattiti, attivismi e in-attivismi. Stabiliscono una gerarchia, un ordine di priorità. L'organizzazione del dibattito è essa stessa parte del dibattito, come sua condizione di possibilità. Non ci sono dibattiti in astratto.

Pubblicando un articolo, un documentario o un libro, un catalogo, operando quindi una selezione tra cosa è degno di essere messo in rilievo e cosa no, creano il trend, l'atmosfera, il di-cosa-ti-devi-(pre)-occupare-adesso, il per-cosa-devi-scendere-in-piazza-o-stare-sul-divano-davanti-ad-uno-schermo-a-(non) -meditare-ora. Il mettere-in-vetrina pressuppone il possedere-il-negozio.

(esempio: l'editore NOT pubblicando la traduzione italiana di Inventare il futuro non dà semplici consigli di lettura, ma crea le condizioni di possibilità del dibattito e del meta-dibattito. Come sarebbe possibile ripetere in modo acritico PRETENDI LA PIENA AUTOMAZIONE, come fa oggi praticamente chiunque negli ambienti filo-accelerazionisti, se nessuno avesse dato rilievo a quel testo?)

Anche la critica e la satira sono parte attiva di questo carrozzone, perché ridendo-di-X o attaccando-X contribuiscono a rinsaldare l'idea che X sia il polo gravitazionale attorno a cui ruotare.

Ma c'è di più rispetto alla necessità del macchinario di alimentarsi per sopravvivere (vendendo dati, oggetti o spazi pubblicitari) o il fatto che questa necessità non coincida col bisogno del fruitore di essere informato o aggiornato in merito all'attualità (o meglio: la costruzione del bisogno di informazione è parte integrante del suddetto macchinario). Oltre allo spettacolo, oltre al simulacro, cosa rimane fuori? A chi non viene data voce oltre a chi non passa la selezione mediatica? Cosa tralascio quando mi faccio catturare dal macchinario? Cosa metto da parte? Quali progettualità sconvolge un ri-assetto dell'ordine mediatico? Entro quale misura si può contrastare il funzionamento del macchinario?

Boicottare individualmente social/streaming/giornali/radio/tv non è abbastanza efficace dal momento in cui si è inseriti in una rete di rapporti non c'è una direzione collettiva univoca e l'informazione trova sempre qualche poro entro cui infiltrarsi... magari Netflix non lo guardi tu, ma tua sorella o il tuo collega sì.

Congetture sull'origine del patriarcato

Nessuno studio che teorizza l'esistenza di una società orizzontale originaria modellata sul femminile riesce a spiegare in modo convincente come sia avvenuto il passaggio da questa società alla società patriarcale.

L'idea che il passaggio sia avvenuto con la scoperta della funzione dello sperma (l'uomo capisce che è parte attiva nel processo riproduttivo) non tiene conto del fatto che nelle società matriarcali contemporanee la funzione dello sperma è conosciuta, ma si continua a dare poca importanza alla figura del padre.

Se i capi si fossero imposti con la forza, sarebbe stato troppo facile ucciderli o mandarli via. Avrebbero dovuto passare la vita nel terrore, guardandosi le spalle.

Se si fossero imposti con l'inganno, come è possibile che sistematicamente non se ne sia accorto nessuno in nessuna parte del mondo?

CONGETTURA: Le gerarchie sono emerse dal basso.

I capi non si sono imposti: sono stati eletti.

La base della piramide sostiene il vertice. Il vertice non può schiacciare la base: non è abbastanza pesante.

Il capo riceve i privilegi in cambio della responsabilità di organizzare la società. E' anche il primo a fare una brutta fine se va storto qualcosa.

Non c'è stato nessun inganno, nessun lavaggio del cervello.

Il progresso tecnologico non basta a spiegare la divisione della società per genere e per classe.

Le gerarchie sono emerse dal desiderio di essere comandati in condizioni ostili. Chi sta in basso aliena sé stesso nella figura del leader carismatico in cambio dell'illusione della sicurezza. Il desiderio di trascendenza e di alienazione nasce dalla necessità di dover sopportare condizioni ambientali difficili.

In realtà il capo dipende dagli altri tanto quanto gli altri dipendono da lui. La dipendenza è sempre co-dipendenza.

CONGETTURA: I capetti sono sempre esistiti.

I capetti non vanno confusi con i capi. Possono esistere capetti anche in una società orizzontale. La differenza tra il capetto e il capo assoluto è che il primo non viene riconosciuto formalmente e non ha privilegi materiali. L'orizzontalità non implica l'uguaglianza assoluta (che non può esistere perché ogni persona è diversa). E' per questo che in un modo o nell'altro i capetti saltano sempre fuori, anche con le migliori intenzioni di partenza.

Il patriarcato non può essere apparso concettualmente dal matriarcato, se li intendiamo come mutualmente esclusivi e sequenziali. Altrimenti il matriarcato sarebbe solo una proiezione del paradiso nella preistoria. O il Giardino dell'Eden con un altro nome. L'albero e il rizoma come modelli compenetranti, in opposizione al dualismo orizzontale/verticale, sono più efficaci a comprendere le dinamiche del potere. Dovevano esistere gerarchie latenti anche prima che i capi venissero eletti.

L'idea che gli uomini abbiano assimilato il concetto di gerarchia osservando gli animali poggia su una proiezione della figura dell'etologo nella preistoria. Gli studi di etologia che teorizzano branchi di animali capeggiati dal maschio alpha sono proiezioni del patriarcato sulla natura. Insomma: ragionamento circolare. Ma quando David Mech confuta da solo il suo precedente studio sui lupi (che ha contribuito a rendere celebre l'espressione maschio alpha) dice una cosa interessante: la struttura gerarchica non si osserva nei lupi allo stato brado, ma solo in condizioni ostili create artificialmente.

Non esiste un bisogno innato di primeggiare sugli altri. La competizione emerge da un ambiente ostile. Si sceglie come capo la persona più adatta, per avere l'illusione di essere protetti e al sicuro.

Alcuni capetti potrebbero essere stati eletti capi assoluti quando si sono presentate certe condizioni ambientali (clima, scarsità di risorse, aumento della popolazione) e la necessità di riorganizzare la società attorno a queste condizioni materiali.

CONGETTURA: Le donne e gli uomini hanno partecipato in modo attivo alla creazione della loro stessa condizione di oppressione.

La concezione della società come permeata da un conflitto dicotomico è un'invenzione dei movimenti rivoluzionari della modernità (marxismo, femminismo, anarchismo). Riflettere sulle società patriarcali antiche (come quella greca) come se fosse sempre esistito un Noi opposto ad un Loro diventa fuorviante. Si interpreta il passato con categorie moderne.

Nella fattispecie: non si è sempre data tutta questa importanza al sesso, al genere, ai rapporti di coppia. Il sesso non ha sempre avuto un ruolo primario nella costruzione dell'identità. Non c'è sempre stato un Noi Donne all'interno del patriarcato. A dire: le donne non si sono sempre pensate come Uno. L'idea di una sorellanza tra oppresse l'ha portata il femminismo. Forse è la fratellanza cristiana trasposta al femminile (sono le suore a chiamarsi tra loro sorella).

Il patriarcato crea gerarchie non solo tra uomo e donna, ma anche tra uomo e uomo, tra donna e donna, e paradossalmente a volte anche tra donna e uomo! Una persona non è solo il suo sesso, ma anche e soprattutto la sua posizione (status) all'interno di queste gerarchie. L'unità è una cosa che si inventano gli oppressi per rendere sopportabile la loro condizione. La verità è che il sistema è tenuto in piedi da millenni praticamente da chiunque. Come potrebbe andare avanti la competizione tra maschi se dall'altra parte non arrivasse un qualche stimolo a continuare? Se metà della popolazione mondiale non lo volesse veramente, come farebbe il sistema a reggersi in piedi?

E' il femminile che è oppresso ovunque, non la donna.

Territorio e progettualità

Oggi i guru del self-help e i manager parlano spesso di zona di comfort (o comfort-zone). La zona di comfort è il territorio in cui esiste (per noi) un sistema di segni e riferimenti che ci fa sentire a nostro agio. Uscire dalla zona di comfort può essere inteso come movimento di deterritorializzazione.

Un movimento di deterritorializzazione implica uno sconvolgimento della progettualità associata al sistema di segni che viene di volta in volta sradicato.

Esempio: cambiamento all'interno della sfera lavorativa/abitativa/relazionale => viene o passa la voglia di fare questo o quello (scrivere, disegnare, costruire, arredare, viaggiare, ecc...).

È una condizione insostenibile in modo permanente: il bisogno di ordine (da non confondere con quello di identità) non può venire dalla cultura, perché quello che intendiamo per cultura non è altro che un sistema di segni e riferimenti, cioè un tentativo di mettere ordine nel mondo. Sarebbe come dire che la cultura è un bisogno culturale, il che implicherebbe una circolarità. Il bisogno di armonia deve essere preesistente.

Oggi viene fatta passare l'idea assurda che sia sbagliato cercare tranquillità, volere il divano, il salotto. Ma come mai quando usciamo da una zona di comfort finiamo sempre per ricrearci una qualche altra zona di comfort? Come mai una deterritorializzazione implica sempre una riterritorializzazione?

È quello che fanno finta di non vedere i detrattori di Deleuze quando tentano di farlo passare per un apologeta (più o meno indiretto) del neoliberismo, della flessibilità, del nomadismo inteso come vita precaria (vedi Rehmann ne I nietzscheani di sinistra). In realtà anche i nomadi hanno le loro routine e i loro segni. L'opposizione nomos/polis non sottende un giudizio morale del tipo buono/cattivo. Piuttosto sta a dire: c'è anche altro.

Ecco: i progetti hanno una dimensione materiale e territoriale anche quando sono o rimangono solo delle fantasticherie. Per fantasticare ci vogliono stabilità e condizioni adeguate. Altrimenti le fantasticherie non partono.

Cambiare abitudini implica il mettere sul piatto molto più dell'abitudine in sé. Per questo è difficile.