Territorio e progettualità
Oggi i guru del self-help e i manager parlano spesso di zona di comfort (o comfort-zone). La zona di comfort è il territorio in cui esiste (per noi) un sistema di segni e riferimenti che ci fa sentire a nostro agio. Uscire dalla zona di comfort può essere inteso come movimento di deterritorializzazione.
Un movimento di deterritorializzazione implica uno sconvolgimento della progettualità associata al sistema di segni che viene di volta in volta sradicato.
Esempio: cambiamento all'interno della sfera lavorativa/abitativa/relazionale => viene o passa la voglia di fare questo o quello (scrivere, disegnare, costruire, arredare, viaggiare, ecc...).
È una condizione insostenibile in modo permanente: il bisogno di ordine (da non confondere con quello di identità) non può venire dalla cultura, perché quello che intendiamo per cultura non è altro che un sistema di segni e riferimenti, cioè un tentativo di mettere ordine nel mondo. Sarebbe come dire che la cultura è un bisogno culturale, il che implicherebbe una circolarità. Il bisogno di armonia deve essere preesistente.
Oggi viene fatta passare l'idea assurda che sia sbagliato cercare tranquillità, volere il divano, il salotto. Ma come mai quando usciamo da una zona di comfort finiamo sempre per ricrearci una qualche altra zona di comfort? Come mai una deterritorializzazione implica sempre una riterritorializzazione?
È quello che fanno finta di non vedere i detrattori di Deleuze quando tentano di farlo passare per un apologeta (più o meno indiretto) del neoliberismo, della flessibilità, del nomadismo inteso come vita precaria (vedi Rehmann ne I nietzscheani di sinistra). In realtà anche i nomadi hanno le loro routine e i loro segni. L'opposizione nomos/polis non sottende un giudizio morale del tipo buono/cattivo. Piuttosto sta a dire: c'è anche altro.
Ecco: i progetti hanno una dimensione materiale e territoriale anche quando sono o rimangono solo delle fantasticherie. Per fantasticare ci vogliono stabilità e condizioni adeguate. Altrimenti le fantasticherie non partono.
Cambiare abitudini implica il mettere sul piatto molto più dell'abitudine in sé. Per questo è difficile.