Anti-teoria della classe disagiata

La teoria della lotta di riconoscimento è debolissima, perché è fondata sull'errore del desiderio come mancanza. In realtà sia il soggetto (Io) che la comunità (Altro) sono plasmati di volta in volta dai concatenamenti in cui essi si trovano inseriti. Il bisogno di riconoscimento è sempre storicizzato e orchestrato, ha sempre una sua temporalità e una sua forma predeterminata. Non esiste se non come creazione e illusione.

Esempio: l'industria della Vanity Press è fondata sul bisogno sentito dallo scrittore di colmare il gap tra la sua identità reale e la sua immagine idealizzata (lo scarto tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere). Ma il soggetto-scrittore e la comunità-editoriale come si sono formate? Non sono le contingenze storiche e il sistema economico ad aver plasmato il sogno di pubblicare un romanzo, di essere riconosciuti da una conunità come scrittori?

Il punto è che questo bisogno è illusorio. R. A. V. rovescia la piramide di Maslow ma rimane imbrigliato in un'idea ingenua di riconoscimento come oggetto mancante da ottenere a tutti i costi. Ciò che causa l'infelicità generazionale non è il fatto di non riuscire a realizzarsi, ma il credere nel bisogno di doversi realizzare a tutti i costi (professionalmente, ma non solo...).

Nessuno di noi ha veramente bisogno di titoli o carriere, di un pubblico nutrito, di essere seguito o ammirato dalle masse.

L'importante è che la volontà di potenza (intesa come atto di creazione) trovi un modo per fluire, che si inneschi un divenire, che si capisca che concepire il desiderio come bisogno vuol dire in ultima analisi infliggersi l'esistenza.